Blade Runner. Il cinema che fa storia
Con la recente riproposizione al cinema di Blade Runner di Ridley Scott ho avuto modo di apprezzare uno dei grandi capolavori sci-fi della storia del cinema ancora più nel profondo, grazie all’atmosfera che solo il grande schermo riesce a portare. Un’emozione unica godersi una pellicola del genere rimasterizzata apposta in 4k per le sale; parliamo infatti di un film uscito nel 1982 caratterizzato da una delle ambientazioni più suggestive e meglio curate della storia del cinema.
Ispirato dal celebre romanzo di Philip K. Dick “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (in italiano “Gli androidi sognano pecore elettriche?”), questa pellicola racconta di un futuro distopico in cui l’uomo ha espanso i suoi orizzonti di colonialismo allo spazio e alle stelle, creando colonie extra-terrestri dove i cosiddetti “replicanti”, androidi identici agli esseri umani, sono fabbricati e utilizzati appositamente per sfruttare la forza lavoro.
La trama è semplice ma coinvolgente. Ci troviamo a Los Angeles, dove il protagonista, tale Rick Deckard (interpretato da un giovane Harrison Ford), è un blade runner, ovvero un agente speciale incaricato di trovare e ritirare dal servizio, cioè eliminare fisicamente, i replicanti che fuggono e tornano illegalmente sulla Terra. In particolare, Deckard verrà contattato per trovare un gruppo di replicanti fuggiti da una colonia mineraria e giunti fino a Los Angeles.
Il film ha una filosofia ben determinata, che lascia lo spettatore con una domanda: “Cosa vuol dire essere umani?”. Questa domanda si fa via via più forte, insinuando nello spettatore il dubbio: ciò che Deckard sta facendo è la cosa giusta? e se in fondo i replicanti fossero addirittura più umani dei loro creatori?
A questi dubbi si aggiunge una delle scene più significative di tutto il film, è una delle meglio realizzate e importanti della storia del cinema, la cosiddetta scena “tears in the rain”
(seguono degli spoiler sul finale).
La scena si svolge sul tetto dove Roy, il capo dei replicanti salva Deckard, lasciando scorrere l’odio e il desiderio di vendetta, facendo un discorso memorabile, senza tempo:
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.
Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo… di morire.»
Roy, creato come arma, si rivela più umano degli umani: mostra pietà per Deckard, mostra appieno la paura della morte, accettandola; ricorda, soffre, comprende la bellezza e la perdita. È in quel momento che si capisce che il vero protagonista non è Deckard, ma Roy: la macchina che insegna all’uomo cosa significa essere vivi.
Le memorie di Roy lasciano spazio a delle immagini suggestive che richiamano la bellezza del cosmo, memorie uniche che non apparterranno mai a nessun altro.
E così la pioggia cancella tutto, lasciando scorrere e svanire l’identità di una persona nell’indifferenza del mondo. In pochi secondi Roy stravolge il senso del film, diventandone il vero protagonista, la macchina che insegna all’uomo come vivere.
Quando si parla di questa pellicola è impossibile poi non elogiare la cura del comparto visivo e sonoro. Nonostante si capisca che il film non è un prodotto recente, rispetto a molti film dell’epoca come la trilogia di Star Wars o quella di Ritorno al futuro è invecchiato sorprendentemente bene, mantenendo degli effetti speciali che fanno invidia a molti film e serie TV uscite in questi ultimi anni; la rimasterizzazione ha aiutato rendendo la grafica più pulita, con degli aggiustamenti sugli effetti speciali e sulla risoluzione video, migliorando generalmente il comparto tecnico del film.
Parlando del lato sonoro, invece, il film rimane uno dei giganti inarrivabili dell’industria cinematografica da ormai più di 40 anni; difatti uno dei fattori che ha reso questo film un cult è proprio la sua colonna sonora, composta da Vangelis, che funge da perfetto collante per l’atmosfera, ricca di profondità e funzionale a far immergere lo spettatore in questo cupo mondo futuristico. La colonna sonora è caratterizzata dal grande utilizzo di sintetizzatori, molto adatta al contesto della pellicola che richiama appieno il genere del retro-futurismo. Spiccano in particolar modo alcune tracce come “Blade Runner Blues” o “Love Theme“, che incorporano sax e armonie da film noir anni ’40 e ’50, rafforzando il legame con quel genere cinematografico. Il comparto sonoro viene in ultimo accompagnato dai suoni ambientali perfetti: i suoni rarefatti, sospesi, evocano paesaggi mentali incredibili; infine la pioggia, grande elemento che accompagnerà lo spettatore per tutta la pellicola, restituisce quei toni malinconici e misteriosi che caratterizzano la stessa.
Questo grande insieme amplifica maggiormente i temi del film quali memoria, identità e umanità.
Concludo ribadendo che l’atmosfera è curata alla perfezione per immergere completamente lo spettatore in una Los Angeles distopica dove il noir e il cyberpunk si uniscono in una delle ambientazioni meglio concepite del cinema; ancora oggi Blade Runner è considerata una delle opere più importanti della storia cinematografica e, paradossalmente, pur raccontando di ciò che inevitabilmente svanisce, riesce a restare impressa nella memoria dello spettatore come pochi altri film sanno fare.
Francesco Morandi